Il filo rosso - di Luca Santangelo
Pubblicato il 23/06/2024


Il filo rosso

 

Premessa

Di fronte a fatti di violenza così efferata, brutali e devastanti è difficile trovare le parole adatte per poter esprimere in un testo la rabbia e il dolore che hanno provocato in me. Chi è nato e cresciuto o abita nel nostro territorio, Latina e la sua provincia, sa quanto questo episodio violento che ha colpito Satnam Singh, sia il sintomo più visibile di un sistema di omertà, violenza, ingiustizia, un sistema di sfruttamento e dominio totale che colpisce in particolare queste terre, così come altre zone della provincia italiana.
Su più livelli - dalle aggressioni neofasciste alle forme di schiavitù e lavoro precario e nero diffuso, dalle violenze sistemiche e le aggressioni contro la comunità queer alla violenza criminale del sistema mafioso che stringe in una morsa il nostro territorio - tutte e tutti siamo consapevoli delle situazioni drammatiche che accadono in provincia. Accendere la luce su queste condizioni marginali e costruire delle lotte unitarie e radicali contro questo sistema di dominio e sfruttamento è quanto di più urgente nella situazione storica che viviamo.
Il mio contributo, parziale, in forma di appunti, nasce da questo bisogno urgente. Gli strumenti utilizzati per chiarire, prima di tutto a me stesso, perché accadono queste cose, sono quelli della ricerca storica, che provo a maneggiare e con cui provo a dialogare.
«La storia – scrive Fernand Braudel – non è altro che una continua serie di interrogativi rivolti al passato in nome dei problemi e delle curiosità – nonché delle inquietudini e delle angosce – del presente che ci circonda e ci assedia».
A tutto il resto, alla rabbia e al dolore, bisogna rispondere collettivamente nelle piazze, nelle mobilitazioni collettive, tutte e tutti insieme.

 

Indifferenti

In questi giorni drammatici a seguito dell’uccisione di Satnam Singh[1] nelle campagne dell’Agro Pontino, luoghi in cui sono nato e cresciuto, mi è capitato di riascoltare alla radio il famosissimo testo “Indifferenti” di Antonio Gramsci sul numero de La Città Futura del 11 Dicembre 1917.
Questa volta, però, sono stato colpito da un passaggio che letto oggi assume un significato ancora più rilevante per raccontare questa storia (le parole chiave sono messe da me in grassetto):

“L'indifferenza è il peso morto della storia. E' la palla di piombo per il novatore, è la materia inerte in cui affogano spesso gli entusiasmi più splendenti, è la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde, meglio dei petti dei suoi guerrieri, perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori, e li decima e li scora e qualche volta li fa desistere dall'impresa eroica.”

La palude di Gramsci, nella sua massima rappresentazione simbolica di indifferenza, è la migliore metafora per raccontare un territorio paludoso nella sua essenza profonda: non per le acque e gli stagni che da sempre vivono il territorio su cui, in varie fasi, le strutture di potere si sono scagliate per imporre il proprio sistema di sfruttamento delle risorse naturali, il proprio dominio[2], ma una palude di omertà, di silenzio, dove tutto accade e nulla muta.

 

"E’ la palude che recinge la vecchia città e la difende meglio delle mura più salde"

A differenza di quanto riportato da molti giornali, l’attuale città di Latina, nella forma e nelle contraddizioni sociali che vediamo oggi, nasce tra il 25 Maggio 1944, giorno della Liberazione della città dal nazifascismo e il 7 Aprile 1946, quando le cittadine e i cittadini parteciparono per la prima volta alle elezioni democratiche, dando corpo al primo momento di vita pubblica e democratica della comunità.
Latina nasce con alle spalle un conflitto storico legato proprio alla terra. 

Siamo in un fazzoletto di terra tra Roma e Napoli, una zona di confini (storici - come quello tra Stato Pontificio e Regno delle due Sicilie che divide a metà l’attuale provincia - e geografici - sia per le montagne che per le acque, costante elemento di tensione con le società umane) e di confine (un'area di agricoltura, allevamento e piccola produzione manifatturiera per Roma).
Alla fine dell’Ottocento le terre pontine sono dominate dal sistema del latifondo, in cui centinaia di lavoratori stagionali, all’interno del grande fenomeno di migrazioni interne di questa fase storica, si spostano dalle aree più interne e dai paesi dei Monti Lepini[3] per lavorare la terra. Già alla fine dell’Ottocento nelle terre pontine è presente un sistema di schiavitù, di fame e miseria.

Alla fine dell’Ottocento a Suso (frazione di Sezze, comune dei Monti Lepini) ci abitava tanta gente- racconta Alessandra Leggeri, contadina classe 1884 nel libro “Le storie della Semprevisa” di Fausto Orsini. Alcune famiglie in piccole case, la maggior parte nelle capanne. Eravamo tutti contadini o braccianti, e poveri. Chi possedeva un paio di vacche era quasi un piccolo signore, mentre i veri ricchi in giro non se ne vedevano, a parte qualche signore di Sezze che aveva la villa in campagna per la villeggiatura. Mangiavamo polenta, tanta polenta e pane di farina rossa, a volte anche pane di farina di grano, legumi, patate... La Carne la si poteva mangiare solo a Natale e Pasqua e in qualche occasione importante come matrioni, battesimi, cresimi e comunioni. […] SI lavorava quasi solo per campare. Il lavoro si trovava nell’Agro Pontino. Si poteva andare a giornata sin da bambini nelle aziende, oppure si prendevano dai signori appezzamenti di terra da coltivare alla metà.

I lavoratori rispondono con le occupazioni delle terre e la costituzione di società operaie di mutuo soccorso.
Nel numero dell’edizione romana dell’Avanti del 29 Settembre 1898 leggiamo di un'occupazione e uno sciopero avvenuti nell’attuale comune di Latina, una delle prime testimonianze di un movimento organizzato di contadini e braccianti del territorio:

Domenica scorsa numerosi contadini si radunavano davanti al municipio per richiamare l’attenzione degli amministratori del comune sulla necessità di ripartire la tenuta De Magistris tra di essi contro il pagamento del canone annuo. Il comune proprietario per lascito di detto fondo lo aveva invece affittato al singor Riz di Velletri per 32 mila lire all’anno. […] Lunedì a sera però vedendo che i provvedimenti tardavano, i contadini si riunirono nuovamente numerosissimi e stabilirono che la mattina si sarebbero recati essi stessi a prendere il feudo. La mattina di martedì infatti di buon’ora circa duecento lavoratori con zappe, vanghe ed altri arnesi si diressero verso la tenuta De Magistris dove si misero tranquillamente a lavorare.”

Al di là delle vertenze specifiche di quel periodo storico (le terre lasciate incolte dai latifondisti come arma di ricatto per stabilire chi poteva lavorare e chi no) è utile cogliere questo aspetto per capire dove si è iniziato a tessere quel filo rosso che lega le lotte storiche per la terra con lo sciopero di sabato 22 giugno 2024 contro il caporalato, per chiedere giustizia per Satnam Singh, per estirpare dalle campagne questo sistema di sfruttamento e schiavitù secolare a cui sono legati lavoratrici e lavoratori nelle terre pontine.

 

"Perché inghiottisce nei suoi gorghi limosi gli assalitori"

In due momenti diversi la palude simbolica ha provato ad inghiottire le mobilitazioni dei contadini.
Il 6 Gennaio 1913 nel comune montano di Roccagorga la guardia regia spara sulla folla dopo la fine di un comizio della “Società di mutuo soccorso Savoia”, una delle tante organizzazioni contadine nate in quegli anni di lotte. Usando le parole del canto anarchico “Il feroce monarchico Bava”, gli affamati furono sfamati con il piombo. Ancora Gramsci scriverà che l’origine reale dei moti della Settimana Rossa del 1914 “fu l’eccidio di Roccagorga, tipicamente «meridionale», e che si trattava di opporsi alla politica tradizionale di Giolitti, ma anche dei governi di tutti gli altri partiti, di passare immediatamente per le armi i contadini meridionali che elevassero anche una protesta pacifica contro il malgoverno e le cattive amministrazioni degli amici di tutti i governi.”

All’eccidio di Roccagorga i contadini delle terre pontine risposero dando ancora più sostegno e vigore alle lotte votando in massa alle elezioni del 1920 le liste socialiste e repubblicane.
 

Il secondo momento è legato al 18 Dicembre 1932 quando Mussolini inaugurò “il monumento a grande scala” Littoria, dando origine ad uno dei prodotti propagandistici, simbolici e mitopoietici più forti (ancora oggi estremamente potente) del fascismo: la bonifica delle paludi pontine.
A differenza dello Stato Pontificio, che governò le masse contadine attraverso la mediazione dei contratti di colonia, il fascismo marginalizzò i contadini della montagna, espellendoli dalle terre bonificate e poi riassegnandole con contratti di coloni, poi ammessi a riscatti, ai coloni emiliani, romagnoli, friulani e veneti:

“È vero che queste terre scaturivano da espropri che colpivano le proprietà – scriveva Severino Spaccatrosi, partigiano e segretario del PCI di Latina - ma non quelle latifondistiche, bensì quelle medio grandi che non si assoggettarono alle disposizioni del regime e che comunque furono risarcite con soldi dello Stato, ovviamente.”

Il fascismo sulle terre pontine ha alimentato un conflitto tra contadini, tra subalterni, per imporre il proprio dominio e la propria narrazione coloniale, reprimendo qualsiasi forma di dissenso e opposizione politica.

“Mancava il lavoro al paese e il padre non era iscritto al Partito fascista – racconta Fiordeglia Lanzoni, sul padre di Alfredo Guerzi, emigrati da Ferrara per lavorare nei poderi dell’Agro Pontino - per cui era perseguitato dai fascisti locali. Una volta, per aver messo un nastrino rosso ai capelli di una sua bambina, fu preso a fucilate davanti a casa; lo salvò la moglie chiudendo il battente della porta che lo riparò[...] I fascisti emigrati da Ferrara furono pochi e fecero parte del gruppo dirigente; gli altri erano braccianti di idee socialiste, costretti poi qui a prendere la tessera del partito. Quando Mussolini venvia in visita, mettevano in carcere quelli che dichiaravano le loro idee socialiste. Una volta che suo padre durante una sfilata, non aveva salutato il gagliardetto, un fatto lo prese a calci nel sedere e lui dovette tacere e subire; andò bene che non gli tolsero il podere, come successe ad altri.”

Il fascismo ha inghiottito nei suoi gorghi limosi la lotta per la terra fino al 1944, quando dopo la Liberazione i contadini si organizzano e tornano a lottare.

 

Il filo nel dopoguerra

Nemmeno la violenza e la devastazione dei territori avevano mutato le condizioni sistemiche di sfruttamento legate alla terra.
Il 25 luglio 1944, a soli due mesi dalla Liberazione della provincia, un gruppo di contadini occupa le terre incolte. E’ solo l’inizio di una serie di lotte per il lavoro, contro lo sfruttamento e per la terra che si articoleranno tra la fine degli anni quaranta e gli anni Cinquanta, anche attraverso la forma degli scioperi a rovescio, dove contadini, braccianti e disoccupati scioperavano lavorando per opere pubbliche utili per la comunità. Pietro Ingrao, dirigente del PCI nato a Lenola in provincia di Latina e futuro Presidente della Camera, nel 1951 scriverà su L’Unità dello sciopero alla rovescia di Sonnino, che ha portato alla costruzione dal basso di una strada.

“Camminiamo sulla strada costruita. È un lavoro commovente, preciso. I contadini ci spiegano che la strada giova a tutto il paese; ai pastori, ai contadini che vanno in campagna, ai proprietari della zona; si abbrevia di alcuni chilometri il cammino per scendere nella piana dell’Agro, i barrocci fanno meno fatica perché la strada è più dolce; strada delle paludi, la chiamano, perché è la via naturale di comunicazione con l’Agro Pontino.”

Contadini e braccianti dell’Agro Pontino continuano a soffrire la miseria e la fame. Come racconta Maria Grazia Delibato, militante del PCI di Latina, della CGIL e dirigente dell’UDI (Unione Donne Italiane) nel suo libro “Una timida ribelle”, «gli scioperi delle raccoglitrici di olive Cori e Norma, due paesi vicini a Latina, sono nati perché il padrone si rifiutava di pagare meno di 100 lire al giorno».

Ci sono due dati che fanno capire la fame e la miseria di questi anni raccolti nel verbale del Congresso della Camera Confederale del Lavoro di Latina e provincia del 1952.
Il primo riguarda le giornate di occupazione e i salari. Prendiamo ad esempio la già citata Roccagorga: 414 famiglie denunciano una occupazione media di 60 giornate l’anno con un salario di lire 400 giornaliere (circa 7€)
Il secondo riguarda i debiti con i negozi di generi alimentari: il credito medio di ciascun lavoratore con i negozianti per generi alimentari locali è di 5.000 lire mensili per l’intero anno.

Tra la metà degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, con l'inserimento della provincia di Latina nell'area di azione della Cassa del Mezzogiorno, l’industrializzazione ha prodotto un enorme mutamento nella società pontina: su quelli che erano campi e poderi vengono costruite fabbriche e la produzione agroalimentare diventa industriale. E' in questa fase che nasce quel modello di produzione agricola ancora presente oggi nelle campagne dell'Agro Pontino. Utilizzata come uno dei principali motori di propaganda dei governi democristiani, la Cassa del Mezzogiorno pur agendo su alcune importanti infrastrutture(un esempio su tutti riguarda la bonifica: l'opera iniziata dal fascismo non solo non è mai arrivata a compimento, ma è stata distrutta dalla guerra. Il completamento dell'opera di governo delle acque nel territorio pontino è stato realizzato dalla DC e finanziato dalla Cassa del Mezzogiorno)  ha continuato a produrre un forte sistema fatto di disuguaglianze. Si continua a morire di fame in montagna, nei campi e si muore di fame in fabbrica.
Non è un caso che il più grande sciopero operaio della provincia di Latina, il 30 settembre 1968, si scaglia contro il sistema delle gabbie salariali, un sistema che prevedeva che al medesimo impiego, la collocazione geografica della fabbrica determinava un diverso salario. Un operaio di Latina rispetto ad un operaio di Milano, pur facendo lo stesso lavoro, aveva un salario più basso. Ancora oggi l'Agro Pontino soffre i vuoti lasciati da quell'enorme accellerata industriale, che dalla metà degli anni 70 vive una profonda crisi che ha lasciato al territorio disoccupazione, precariato e le macerie abbandonate delle fabbriche. Per lo storico Paul Ginsborg, gli scioperi di Latina del 1968, saranno il primo colpo per l’abbattimento del sistema delle gabbie salariali. Così come decine di anni dopo, nel 2016, la mobilitazione dei braccianti dell’Agro Pontino porterà alla prima legge contro il caporalato. Ma questo ancora non basta.

 

Tirare il filo

Arrivati a questo punto dovremmo chiederci perché ancora oggi persiste questo sistema di sfruttamento della terra, dopo anni di mobilitazioni. E qui il discorso si farebbe molto lungo: Marco Omizzolo, sociologo che da anni si occupa di caporalato e mafie in provincia di Latina, lo spiega perfettamente (qui un'intervista su Radio Itineraria, di qualche anno fa, ma ancora drammaticamente attuale) Caporalato e Agromafie - intervista a Marco Omizzolo.
Ma, senza dilungarci ulteriolmente, è necessario prima di tutto, così come nel corso della storia delle terre pontine, riconoscere quell’indifferenza che inghiottisce nei suoi gorghi limosi il filo rosso nato alla fine dell’Ottocento e che ancora oggi viene tirato dai braccianti indiani dell’Agro Pontino.
Un'indifferenza che riguarda le istituzioni e tutti i livelli della società. Quell’indifferenza che di fronte al made in Italy e al “grande polo agroalimentare dell’Agro Pontino” volta le spalle alle minacce mafiose, ai salari da fame, alle condizioni di sfruttamento. Quell'indifferenza che assorbe tutte le spinte di giustizia sociale prodotte dal filo rosso e permette che tutto rimanga così com'è.
Tiriamo insieme questo filo.
Facciamolo per chi ha lottato oltre 100 anni fa, facciamolo per chi lotta oggi.
Facciamolo per Satnam Singh, facciamolo per tutte e tutti noi.

 

[1] E’ compito della magistratura accertare, nel caso specifico, stabilire se siano stati commessi dei reati e giudicarli secondo la legge, ma l’utilizzo del termine “uccisione” deriva dal fatto che “In attesa dei risultati dell'autopsia, è già parere unanime delle istituzioni che Satnam abbia perso la vita per colpa di quelle stesse persone che avrebbero dovuto aiutarlo”, come riportato dall’ANSA il 21 Giugno 2024. Satnam Singh, si attendono i risultati dell'autopsia. Ascoltati i colleghi - Notizie - Ansa.it E’ evidente, quindi, che non si può parlare di semplice morte. Aggiornamento del 24/06/2024 :  Secondo i primi risultati dell'autopsia, così come riportato da Adnkronos, Satnam Singh poteva essere salvato. Satnam è morto per dissanguamento. "Se fosse stato tempestivamente soccorso quindi, probabilmente si sarebbe potuto salvare" “Satnam Singh poteva essere salvato”, i risultati dell’autopsia (adnkronos.com)

[2] Sui significati simbolici della palude rimando alla lettura di un piccolo testo dell’antropologo Paolo Gruppuso dal titolo “Le rane e le spighe” (99+) Le Rane e le Spighe. Note sulla retorica fascista delle Paludi Pontine, della Bonifica Integrale e della Colonizzazione. [Latium. Rivista di Studi Storici . 30-31/2013-2014. 225-241] | Paolo Gruppuso - Academia.edu

[3] Parte nord della storica catena dei monti Volsci, a pochi chilometri dall’attuale città di Latina.